domenica 12 febbraio 2012

beautiful losers: 2) Whitney Houston

Stamattina mi sono alzato tardi, ho aperto la pagina facebook e ho trovato curioso che diversi amici miei avessero condiviso lo stesso video: una scena da una trasmissione tv francese del 1986 in cui una giovane e bella Whitney Houston in - diciamo così - viaggio d'affari nella vecchia Europa si faceva intervistare con un alticcio (eufemismo) Serge Gainsbourg, che terminava la chiacchierata rivolgendole per interposta persona un elegante "I wanna fuck her". I dettagli li racconta molto meglio di me il sempre bravissimo TFM, leggetevi il suo post.
Insomma, per farla breve la coincidenza mi ha incuriosito, e solo allora ho scoperto che nella notte italiana la "regina del pop" era morta a soli 48 anni, probabilmente a causa delle droghe da cui era dipendente da anni. Una morte tristemente annunciata, come quella di Amy Winehouse qualche mese fa, e anticipata negli ultimi anni da foto sui giornali scandalistici che la ritraevano in condizioni sempre peggiori.
La prima reazione è stata "non mi è mai piaciuta, Whitney Houston": lontanissima dalla musica che piace a me, esponente di un pop tutto lustrini e paillettes da cui sono sempre stato alla larga. Poi mi è venuto in mente un ricordo ormai rimosso: mille anni fa, ne avevo 13 o 14, mi comprai la cassetta del suo primo, omonimo album: orrenda copertina, con foto african style su rudimentale sfondo arancio sfumato. Probabilmente lo ascoltai anche parecchio: c'erano "All at Once" e "The Greatest Love of All", gli unici titoli che, letti ora, mi dicono qualcosa. La sua voce era davvero bella e potente e, riascoltato oggi, il genere era un soul patinato ma sincero, che si fa piacere più per le ballate che per i momenti ritmati. Un buon pop anni 80 cantato da una voce effettivamente fuori dal comune. Guardandone la copertina giurerei che mi comprai anche il disco successivo, quello che si apriva con "I Wanna Dance With Somebody" (rifatta anni dopo, con mia somma sorpresa, da David Byrne in un suo live al Tunnel di Milano e successivamente nel DVD "Live at Union Chapel"). Poi più.
Negli anni successivi Whitney si diede al cinema, divenne una diva planetaria e poco a poco sprecò la sua voce in canzonette senza arte nè parte, mal scritte e senz'anima, con l'apparente unico scopo di vendere più dischi e restare al vertice delle classifiche.
Non ci riuscì e, complice un matrimonio sfortunato e finito male, iniziò a consumare droghe in quantità industriale per sfuggire alla crescente depressione. Ricordo un articolo letto qualche anno fa in cui si diceva che il crack l'aveva resa talmente paranoica da portarla a fare un buco nel muro del bagno, in modo che potesse controllare sempre la situazione. Voyeurismo a parte, una vicenda penosa, ennesima dimostrazione del fatto che la fama e i soldoni non danno la felicità. Bella scoperta, lo so.
Voglio credere che la "vincente" Whitney fosse un'artista vera, che iniziò a perdere sè stessa quando decise, per calcolo o per incapacità, di gettare via il suo talento e darsi alla dance più insipida, facendosi scrivere pessime canzoni da pessimi autori. Fu allora che perse il soul, l'anima nera che la rendeva diversa e speciale quando cantava diciassettenne nei club. Il suo album più venduto resta proprio il primo, il più vero, a dimostrazione che non sempre i calcoli fatti a tavolino pagano; e chissà che non fosse proprio questa tardiva consapevolezza ad averle fatto imboccare una strada senza ritorno.
Ma chi sono io per giudicare. Oggi è solo tempo di piangere una persona sfortunata che se n'è andata nel peggiore dei modi. R.i.P.