giovedì 10 gennaio 2013

best of 2012 (sort of)


Quest'anno ero deciso a non stilare nessuna classifica delle migliori cose del 2012, primo perchè chissenefrega di cosa mi è piaciuto, secondo perchè di classifiche illustri è già pieno il mondo, terzo perchè durante l'anno appena concluso non è che abbia ascoltato/visto/letto chissà quali meraviglie.
E qui nasce il classico dubbio: sono loro a non pubblicare niente di interessante o sono io ad essere invecchiato, a non apprezzare più le novità, a non essere stimolato alla ricerca di qualcosa di diverso da quello che già conosco, ad aver permesso alla pigrizia di spuntarla sulla curiosità?
Più probabile la seconda ipotesi, ma qualunque sia la soluzione del dilemma così stanno le cose. Ho 40 anni e mi sono seduto sugli allori (mica mi lamento: sempre meglio che su un cespuglio di ortiche, eh). Ma dato che la mania delle classifiche è una scimmia che fatico a scacciare dalla spalla, rieccoci qui.

Iniziando dalla musica, c'è grossa crisi (come direbbe Quelo) se è vero che che ultimamente il grosso di quello che ascolto risale agli anni 60-70-90. Musica "nuova" in giro non ne sento, e allora ecco che - invece di star lì a sforzarmi come una bestia per arrivare ai 10 dischi "top" dell'anno (tra i papabili: Mark Lanegan Band, Tindersticks, il logorroico Neil Young coi Crazy Horse, Patti Smith, David Byrne & St. Vincent, Blues Explosion, PiL, Gallon Drunk..., tutta gente attempata anzichenò) - vado dritto al punto: l'album che più di tutti mi ha trasmesso emozioni forti e inaspettate è stato "Life Is People" di Bill Fay. Un signore inglese di 69 anni di cui non si sentiva parlare dall'inizio dei Settanta, e anche allora non è che se ne parlasse poi molto; il classico autore di culto più tra i musicisti che tra gli ascoltatori (l'onnipresente Jeff Tweedy gli rende omaggio cantando in "This world" e Fay ricambia con una struggente cover di "Jesus, Etc." dei Wilco), che con la semplicità dei Grandi ha tirato fuori dal cilindro una serie di canzoni di un'intensità mozzafiato. A parte l'album di Fay, fatemi citare almeno lo spettacolare live "Berlin" dei Walkabouts che, oltre a testimoniare il successo del tour seguito a "The Dustland" dello scorso anno, rappresenta al meglio la carriera di un gruppo davvero troppo sottovalutato. Una vera meraviglia.
Concerti ne ho visti parecchi, al solito. Ho già parlato in lungo e in largo del Primavera Sound, con Yo La Tengo e Cure ben alti nella mia scala di gradimento nell'ambito di un festival secondo me un po' sottotono. Per il resto voglio ricordare come momenti top i live dei Cranes e quello della mitica Mavis Staples.

Libri, ahimé, ne ho letti pochini. Quelli che mi hanno intrigato di più, ma non sono certo novità editoriali, sono "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte " di Mark Haddon e il saggio di Jared Diamond "Armi, acciaio e malattie", vincitore del Pulitzer nell'ormai lontano 1998. Quindi la faccio breve e passo oltre.

Fumetti? Direi "Cronache da Gerusalemme" di Guy Delisle, col suo modo leggero e delicato di parlarci della difficoltà di vivere tra Israele e Palestina: un modo di fare graphic journalism molto diverso da quello, crudo e altrettanto efficace, dei "Reportages" di Joe Sacco. D'obbligo infine citare il trionfatore assoluto del 2012: Zerocalcare e il suo "Un polpo alla gola", prima storia di largo respiro del disegnatore romano che ha primeggiato in tutte le classifiche di vendita dell'anno, e non solo di fumetti. Successo meritatissimo.

Al cinema ho adorato "Moonrise Kingdom" di Wes Anderson, che metto alla grande al primo posto, seguito da "Argo" di Ben Affleck e - ma si! - "007 - Skyfall".

Vista la mia vita sociale sempre più prossima a quella di una pianta da appartamento, sono state molte le serie TV, quelle si: su tutte la prima parte dell'ultima stagione di "Breaking Bad", sempre stellare e a mio parere di gran lunga il miglior serial degli ultimi anni. Anche "Homeland" se l'è giocata, però: viste le prime due stagioni, di altissimo livello e senza cali di tensione. Poche serie comiche, la migliore decisamente "Modern Family".

Archiviato il 2012, vedremo se nel 2013 ritroverò la voglia di cercare.




domenica 9 dicembre 2012

c'è davvero bisogno del Primavera Club?

Non tutti sanno che il festival musicale Primavera Sound, che si svolge a Barcellona l'ultimo weekend (lungo) di maggio, ha un'appendice invernale nominata Primavera Club: tre giorni di concerti in varie locations della città, tendenzialmente lontane tra di loro e non raggiungibili se non con lunga pena e rottura di zebedei. L'anno scorso per vedere Girls, Steve Malkmus & the Jicks e Pop Group dovemmo spostarci di corsa tra la Sala Apolo (al quartiere del Poble Sec) e il Casino de l'Aliança del Poblenou, mezz'oretta di tragitto e un cambio di linea di metro; quest'anno ancora meglio, perchè le sedi principali erano il (bellissimo) Teatro Arteria Paral.lel e il Sant Jordi Club, situato nientepopodimeno che al Montjuïc e raggiungibile da plaça d'Espanya con una scarpinata di almeno 15 minuti su per le scale. Dal punto di vista logistico, un disastro. Aggiungiamoci il fatto che, nella migliore tradizione del Primavera, il primo giorno bisogna scambiare il biglietto acquistato online con un braccialetto molto fashion da tenere al braccio per i tre giorni del festival, e che per fare questo cambio si è costretti a una coda assurdamente lunga in un unico punto della città, e capirete che già si inizia con le palle fracassate ancora prima del primo concerto.
Dal punto di vista musicale quest'anno è stata un'altra delusione. La prevista Cat Power ha dato forfait e non è stata sostituita da artisti di livello, ragion per cui il nome di cartello è risultato essere quel Mark Lanegan Group che avevo visto solo pochi mesi fa. Il resto, personalmente, lo considero un ripiego.
La prima sera erano di scena gli Swans, attesissimi dopo l'ultimo album che ha ricevuto ottime critiche. Io e l'amico Pinux però non eravamo in vena di rumore industrial (e soprattutto di andare fino al Sant Jordi, reduci da influenze di varia entità) per cui ce ne siamo stati buoni buoni al teatro Arteria a vedere i Great Lake Swimmers e i Cats on Fire. entrambi godibili e piacevoli, ma sinceramente prescindibili.
Venerdì ben poca cosa: i Redd Kross (un hard rock classico e ripetitivo) e poi serata autoctona con i sorprendenti e tiratissimi Triángulo de Amor Bizarro, molto ma molto meglio dal vivo che su disco col loro mix di New Order e Jesus and Mary Chain in salsa ispanica. Purtroppo il fisico debilitato ci ha fatto desistere dal concerto de Los Planetas che erano il clou della serata.
Ieri sera cartellone pieno ma personalmente di nessun interesse, fatta eccezione per il buon Mark Lanegan. Concerto da 6,5 in pagella, gruppo un po' troppo heavy per i miei gusti e repertorio con scarsissimi ripescaggi dal passato. E - cosa gravissima - non vendevano neppure l'EP natalizio alla bancarella del merchandising...

In conclusione: c'è davvero bisogno di un Primavera Club? Io ho preso il biglietto in accoppiata con quello del festival di maggio e mi è costato (per differenza) 30 €... Non molto comunque, ma con un cartellone così povero me ne sarei stato forse più volentieri sul divano di casa. Speriamo che non sia di cattivo auspicio per maggio: per ora i soli Blur confermati, non vorrei che la crisi economica e l'aumento dell'IVA facessero presagire tempi di vacche magre. Staremo a vedere, tenendo le dita incrociate.

lunedì 26 novembre 2012

Cranes @ Salamandra 2, 23/11/2012

"Guapaaaa!", grida una persona del non foltissimo pubblico. "Alison guapaaaaa!" aggiunge un altro. Lei, appena uscita sul palco del Salamandra, sorride e si schernisce timida come una ragazzina: "You're too kind", sussurra con la sua voce da bambina.
Lei é Alison Shaw e sul palco al suo fianco ci sono il fratello Jim e altri tre ragazzotti inglesi non più di primo pelo: i Cranes. Li vidi suonare tre volte all'inizio degli anni 90 e della loro carriera, a supporto dei Cure nel loro Wish tour, al Bloom in una nottata di fitta nebbia e sotto il diluvio di Sonoria: era il loro momento di gloria, a cavallo tra il primo album "Wings of Joy", la pubblicazione di "Forever" e il (relativo) successo commerciale di "Loved". Li adoravo, e canzoni come "Far Away", "Shining Road", "Jewel" (meglio l'abrasivo originale che la versione remixata da Robert Smith, "troppo Cure" per i miei gusti), "Reverie" hanno girato per secoli nel mio lettore.
Negli anni successivi li persi di vista e anche loro si persero, tra cambi di formazione e di rotta: una svolta prima acustica (l'insipido "Population 4") poi chiamiamola-ambient-con-tocchi-di-elettronica (leggerete anche "dream pop", mah) dei successivi tre album, tutti di buon livello, l'ultimo dei quali risalente al 2008. Poco a che spartire con il suono del primo periodo del gruppo, un mix originalissimo di industrial, dark, gothic, shoegaze e cose così, e pochissima anche l'esposizione ai media rispetto alle copertine del decennio precedente. Denominatore comune, proprio quella voce da bambina che sa essere dolce e spettrale, soave e angosciante allo stesso tempo.
Per prepararmi al concerto di venerdì scorso mi sono riascoltato tutti i loro album e mi sono ricordato di quanto li amassi e del perché. Le aspettative per questa nuova esperienza dal vivo a distanza di quasi 20 anni dall'ultima erano quindi molto alte, e sono state rispettate in pieno.
Il concerto era presentato (male: pochi manifesti, poca pubblicità, alla fine pochi spettatori forse anche per l'infelice location a l'Hospitalet de Llobregat e lo sciopero dei mezzi: io ho girato mezz'ora per un parcheggio in una zona - diciamo - non delle più chic dei sobborghi della città) come "più di due ore di viaggio lungo tutta la storia musicale del gruppo", e così é stato: pochi i momenti di stanchezza durante due e ore e 10' generosissime, circa 25 canzoni che hanno rappresentato un perfetto bilanciamento tra prima fase sperimentale (diverse canzoni dai primi EP addirittura precedenti al primo album), anni della maturità ("Forever" e "Loved" gli album più saccheggiati) e ultima decade. Molti classici, diverse chicche naturalmente le mie adorate "Adrift" e "Lilies".
La band è apparsa ben rodata nonostante le poche apparizioni pubbliche degli ultimi anni, con Jim Shaw solito fulcro sonoro di una musica che alterna magistralmente passaggi acustici, assoli elettrici assordanti, poche note di piano e percussioni potenti. E lei, Alison, con la sua veste bianca, il fermaglio a forma di fiore a raccogliere gli stessi riccioli di un tempo, gli occhi chiusi e la mano a ondeggiare nell'aria.
Spero davvero che la voglia di suonare che appariva visibile nei componenti del gruppo si possa tradurre presto in nuova musica, 5 anni di silenzio discografico sono troppi anche per gli standard di pigrizia della famiglia Shaw. É tempo di nuove "future songs", insomma, e chissà che queste poche date "celebrative" non possano far nascere un nuovo equilibrio compositivo tra vecchio e nuovo, tra silenzio e rumore, tra i loro vent'anni e i loro quaranta. Che poi sono anche i miei.

Setlist (accurata al 100% gracias a Estanis):

1- Light Song
2 - Submarine
3 - Shining Road
4 - Loved
5 - Pale Blue Sky
6 - Living and Breathing
7 - Inescapable
8 - Dada 331
9 - Beautiful Friend
10 - Here Comes the Snow
11 - Feathers
12 - Wires
13 - Far Away
14 - Clear
15 - Lilies
16 - Adoration
-------
17 - Heaven or Bliss
18 - Joy Lies Within
19 - Fuse
20 - To Be
21 - Reverie
22 - Jewel
23 - Adrift
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24 - Tangled Up
25 - Future Song
26 - Everywhere

mercoledì 7 novembre 2012

ZERO FOR PRESIDENT

Un fumetto primo nella classifica di vendite di Amazon, ed è lo splendido "Un polpo alla gola" di Zerocalcare, davanti a Camilleri. Il libro precedente di Zero è al quinto posto.
Che ci sia finalmente speranza per il futuro dell'Italia?

(fonte: la pagina facebook della migliore casa editrice italiana di comics del momento: BAO Publishing. Zero è anche in tour promozionale in giro per l'Italia, e io me lo perdo. Check it out.)

Mavis Staples: good vibrations


Mavis Staples è un monumento della musica nera americana. Prima come parte degli Staple Singers in compagnia del padre Pops e di fratello e sorelle e poi come solista, Mavis é stato uno dei simboli del gospel, del soul, del r'n'b statunitense nel corso degli ultimi sessant'anni, magari non acclamata e universalmente nota come altre Grandi Voci (Aretha Franklin su tutte) ma sicuramente di grande importanza dal punto di vista musicale oltre che protagonista di primo piano nelle lotte per i diritti dei neri americani (gli Staples Singers cantavano prima dei comizi di Martin Luther King, o"Dr. King", come lo chiama lei).
Nel corso degli anni spesso Mavis ha collaborato con personaggi di rilievo della musica nera (Booker T. & the MGs, Curtis Mayfield, Ray Charles) ed é stata corteggiata dai grandi della musica "altra": Dylan, The Band, Los Lobos, Dr. John tra le sue collaborazioni. Io la conobbi a fine anni Ottanta, quando nel pieno del mio periodo Paisley Park, comprai un suo vinile prodotto da Prince dopo la sua partecipazione all'orrendo "Graffiti Bridge". Non chiedetemi come fosse quel disco, secondo Allmusic non così male: non ricordo granché, l'unica cosa che all'epoca mi interessava era che ci fosse di mezzo il Principe di Minneapolis, ma una cosa certamente mi rimase impressa ed era la straordinaria voce della Staples.
Roca, grave, con slanci tangibili di passione e pura gioia, quella stessa voce ha sedotto altri grandi nomi del rock più o meno indipendente: tornata alla ribalta (si fa per dire) con "Have a Little Faith" nel 2004, è stata in seguito messa sotto contratto niente di meno che dall'etichetta Anti- con cui ha sfornato tre album splendidi. Ad inaugurare il filotto l'ottimo "We'll Never Turn Back" prodotto da Ry Cooder: un perfetto mix di tradizione e modernità ribadito dall'album "Live: Hope at the Hideout" registrato a Chicago nella successiva tournée. Con Mavis ormai più che settantenne, a fine 2010 è arrivato infine l'acclamato "You Are Not Alone" prodotto da Jeff Tweedy che per l'occasione ha composto la title track e vincitore del Grammy nella categoria "best Americana album". A detta della stessa Staples la collaborazione con il leader dei Wilco, profondo conoscitore della musica degli Staple Singers, continuerà con l'imminente registrazione di un nuovo album che uscirà nel 2013: si sa, di questi tempi tira più il nome di Tweedy che un carro di buoi.
Domenica sera Mavis Staples ha suonato a Barcellona alla [2] de Apolo nell'ambito del Festival Jazz, ed è stata una gran serata. Supportata dalla stessa band chitarra-basso-batteria-cori con cui ha registrato gli ultimi album, capace di dare senza troppi fronzoli la giusta caratterizzazione sonora tra rock, blues, soul e gospel alla potenza vocale della cantante americana, Mavis ha stupito per il suo repertorio, per la sua voce e per la sua simpatia. "We come this evening to bring you some joy, some inspiration and some good vibrations" sono state le sante parole con cui si è aperto il concerto, e mai frase si è rivelata più esatta: io e la piccola folla accorsa ci siamo trovati via via ad una messa gospel ad Harlem, a raccogliere cotone nei campi del profondo Sud o a una marcia per i diritti civili, e tra nuove canzoni e grandi classici abbiamo vissuto momenti di pura commozione e altri di allegria per la contagiosa simpatia della cantante, capace di stabilire un contatto col pubblico (anche fisico, con molte strette di mano) che raramente mi è capitato di vedere in simili situazioni.
Ho avuto la fortuna di conoscere una persona la cui vita da più di 60 anni è pervasa dalla musica, e che attraverso la musica esprime tutto quello che la vita rappresenta. Un salto indietro nel tempo, alle radici della cultura afroamericana e della musica da cui tutto ha avuto origine, e un impagabile contatto con la speranza e la passione per la vita. Mica poco per un "semplice" concerto. Tweedy o non Tweedy, lunga vita a Mavis Staples.

martedì 6 novembre 2012

C'era una volta: James Ellroy and me

Stiamo guardando. Abbiamo le palpebre spalancate e i bulbi strabuzzati. Orbite orbitanti. Stiamo osservando donne. Vogliamo qualcosa di enorme. I miei personaggi non lo sanno ancora. Men che meno il loro casto creatore. Non sappiamo che stiamo leggendo caratteri. Guardiamo così da poter smettere di guardare. Bramiamo il valore morale di una e una sola donna. La riconosceremo quando La incontreremo. Nel frattempo, guardiamo.

Ho molto amato James Ellroy e i suoi romanzi. Lo scoprii prendendo in prestito "I miei luoghi oscuri" alla biblioteca di Dolo quando vivevo sulla Riviera del Brenta ai bei tempi del servizio civile. Quell'autobiografia cruda, quell'indagine sulla morte della madre e sui tormenti interiori che ne derivarono, quella vita ai margini che fu all'origine della carriera di scrittore, furono illuminanti e mi spinsero a leggere molti suoi romanzi. "L.A. Confidential" (che allora, prima del film con Kim Basinger, aveva ancora il titolo "Los Angeles strettamente riservato"), "White Jazz", soprattutto "Dalia Nera" mi stregarono, e con loro quella prosa secca, asciutta, scorticata che era tutt'uno come le storie narrate nei romanzi. Posso dire che per qualche anno James Ellroy é stato il mio scrittore preferito. Grazie a Ellroy ho scoperto il noir, e con esso McBain, Manchette, Hammett, soprattutto Edward Bunker.
Poi, qualcosa si é rotto. La sua prosa si é fatta troppo secca, troppo asciutta, troppo scorticata: spezzettata e fine a sé stessa. Bunker era il mio nuovo riferimento, e lo é rimasto. La prosa di Ellroy ha via via perso il mio interesse, tra romanzi troppo lunghi e storie troppo brevi. Ho smesso di leggerlo, semplicemente.
Nel mio ultimo viaggio in Italia ho trovato al Libraccio "Caccia alle donne", seguito ideale di quel "I miei luoghi oscuri" da cui era nato tutto: l'ho preso subito sperando di tornare indietro nel tempo, a El Monte con Jean Hilliker e il suo deserto, geografico e interiore, a quel delitto e a quel bambino fotografato pochi minuti dopo la morte di sua madre. Alla passione di quella lettura.
Non é stato così. Può essere che sia cambiato io, che i miei gusti letterari si siano evoluti (o involuti), che quel linguaggio e quei luoghi oscuri che un tempo mi affascinavano ora semplicemente mi annoino. Probabilmente é colpa mia. Ma ho trovato "Caccia alle donne" pretenzioso, inutilmente provocatorio, fastidiosamente autoreferenziale. Peccato, per un attimo ci ho sperato.

domenica 10 giugno 2012

vogliamo ancora parlarne? parliamone! il mio Primavera Sound 2012

È una settimana ormai che mi dico che devo scrivere le mie impressioni sul Primavera Sound a cui ho assistito per la quarta volta. Ho iniziato varie volte a farlo, ma poi mi sono detto che ormai non credo interessi più a nessuno. Sono ancora stanco per il tour de force durato tre giorni (ormai ho un'età), e il sonno non l'ho ancora smaltito, quello è sicuro...
Questa edizione non si presentava sotto i migliori auspici, visti i nomi in cartellone: molte meno "stelle" rispetto agli anni precedenti, un numero impressionante di nomi "di ritorno", un sabato piuttosto deprimente e non solo per il forfait di Björk dell'ultima ora. Se a questo ci aggiungiamo che molti degli artisti che avrei voluto vedere suonavano alla stessa ora su palchi differenti per le scelte decisamente cervellotiche dell'organizzazione, insomma il mio spirito non era dei più positivi. Ma poi si sa come va: arrivano gli amici dall'Italia, ti parte la fregola da festival e diventa un happening, una festa, e il giudizio diventa positivo a prescindere dai nomi di chi hai visto e di chi non sei riuscito a vedere.
Cominciamo da chi non sono riuscito a vedere, appunto: tra le rinunce più dolorose metto i Dirty Three, Marianne Faithfull, gli Afghan Whigs, Rufus Wainwright, i Mazzy Star (di cui mi hanno detto molto male, peraltro) e i Big Star's Third (di cui al contrario ho visto e sentito meraviglie). Insomma, un festival nel festival.
Top 3 dei concerti che ho visto:

1) The Cure. Troppo mainstream per i gusti di molti hipsters schizzinosi? Vecchi? Senza un album realmente buono da 20 anni? Sticazzi: 3 ore di concerto (in un festival!), con una scaletta molto varia che ha bilanciato bene lo spirito pop con quello dark (se così si può dire) e che ha regalato delle chicche davvero inaspettate: "Bananafishbones", "Dressing Up", "Fight" (che non suonavano dal 1987), addirittura "Just One Kiss" (b-side di un singolo del '83-84). Gruppo in formissima, con l'aggiunta di Reeves Gabrels alla chitarra.
2) Yo La Tengo. Salvano il sabato e tutto il festival con un live devastante, di una classe immensa. La mia prima volta dal vivo, spero ne seguano altre.
3) Death In Vegas. Altro gruppo che avevo perso di vista anni fa, e che mi ha stupito con una perfetta miscela di rock ed elettronica, ormai più elettronica che rock. Potentissimi.
Altri che ho visto: i Wilco per la terza volta e seconda in pochi mesi, che mi sono piaciuti moltissimo; Sharon Van Etten, pompatissima negli ultimi mesi dai media e dal mio amico Tommy, non delude; i Franz Ferdinand dal vivo sono sempre molto divertenti (anche se le nuove canzoni presentate in anteprima mi hanno lasciato a dir poco freddo), Girls sempre freschi, stavolta con aggiunta di coriste, anche se forse in un contesto del genere scivolano un po' via (ed è un peccato, perchè "Vomit" resta la canzone dell'anno). Poi Lee Ranaldo con Steve Shelley alla batteria, ovvero la Scuola dell'indie rock, un Baxter Dury che non conoscevo e che mi ha piacevolmente sorpreso, l'assalto sonoro dei Mudhoney che mi sono parsi in gran forma, Other Lives piacevolissimi e Pop Group spaccatimpani nel concerto finale del sabato. Sospendo il giudizio su XX (noiosetti), Spiritualized (ho visto troppo poco per giudicare, anche se sono arrivato in tempo per vedere un incazzato Jason Pierce spaccare l'amplificatore ed andarsene dal palco), Beache House (pompatissimi... mah), Chromatics (interessanti dal vivo, ma dubito ci tornerò su) e Kings of Convenience (impeccabili per quel poco che ho visto, ma non è il mio campo da gioco).
Insomma, bene anche quest'anno anche se. E poi, hai voglia a lamentarti quando vai a prendere una birra e ti trovi di fianco nella coda Mike Mills dei R.E.M., o quando ti trovi per caso ad assistere ad una jam session improvvisata nel giardino di fronte al Fòrum tra Atlas Sound e uno stranito Josh T. Pearson che passava di lì per caso. Cose che solo al Primavera Sound.


Per i più stoici: una selezione di foto fatte durante i tre giorni - di concerti e non solo - le trovate qui