giovedì 2 giugno 2011

Primavera Sound 2011: tercer día

Il terzo giorno é stato il più lungo e il più intenso, iniziato già alle 4 e mezza del pomeriggio con… una coda. L’organizzazione è riuscita a complicare anche i concerti dell’Auditori, con un sistema piuttosto demenziale di “micro-prenotazione”. In pratica si potevano prenotare i biglietti ma solo all’apertura dei cancelli lo stesso giorno dell’evento. Quindi: concerto di John Cale alle 17.45, apertura porte ore 16.30 (ma ritardata di 10 minuti, conseguenza: coda), necessità di recarsi al botteghino oltre l’area ristorazione (5 minuti a piedi), altra mega-coda fatta solo per scoprire che i biglietti erano già esauriti! La scoperta successiva è che comunque si può provare ad entrare all’Auditori anche senza prenotazione (e senza pagare i 2 € relativi). Quindi: uscire di nuovo dal recinto, fare un’altra coda serpentinosa ed entrare in una sala… mezza vuota! Mah. Ma non importa, ero talmente carico quel giorno che avevo deciso di non portarmi neppure la macchina fotografica per evitare distrazioni... Motivo per cui non vedrete mie foto dei gruppi in programma il terzo giorno.
Ma torniamo a John Cale, che ha suonato per intero il capolavoro "Paris 1919" (in kilt!) per poi proseguire con pezzi nuovi (brutti) e molto vecchi, ripescando dal repertorio chicche dimenticate (“Hedda Gabler”) e rese molto bene con l’apporto di un’orchestra di 16 elementi; peccato per il mancato bis di “Gun/Pablo Picasso” che fece a Brescia, ma la conclusione di “Captain Hook”, da sempre una delle mie canzoni preferite di “Sabotage”, è stata spettacolare.
Subito dopo al Sant Miguel c’era uno dei gruppi gggiovani più attesi, i Fleet Foxes, che sono proprio bravini. Non esattamente il mio genere, con quei passaggi tra coretti sixties resi perfettamente anche dal vivo ma tendenzialmente da orchite, alternati a passaggi più ritmati e percussivi.
Alle 21.15, quando molta gente si è spostata al palco Llevant a vedere la finale di Champions Barça-United sugli schermi allestiti per l’occasione, noi ci siamo piazzati sotto il palco Ray-Ban su cui gli Einstürzende Neubauten hanno marcato la differenza tra gruppo “bravo” e gruppo “monstre”. Ragazzi, parliamoci chiaro: come loro non c’è nessuno, e ogni concerto è un happening di lamiere, tubi, fusti di plastica, trapani, turbine di jet, un tappeto sonoro e visuale straordinario su cui si poggiano il basso del canottierato Alexander Hacke (che sembra appena uscito da un film porno tedesco degli anni 80) e la voce del dio Blixa. Tra “The Garden” e il bis “Redukt” (e in mezzo tra le altre “Sabrina”, “Haus der Lüge” e una devastante “Headcleaner”), un gruppo in grandissima forma a cui è stata strettissima l’ora e un quarto di concerto. Probabilmente il mio gruppo preferito di tutti i tempi (l’ho detto).

Più difficile parlare del concerto di PJ Harvey. Lei resta senza dubbio uno di quei personaggi di caratura superiore, e si vede, ma l’ultimo album (che viene ripreso quasi per intero) e i due precedenti non sono tra i miei preferiti: preferivo la Polly rockera e sguaiata con chitarra elettrica a tracolla a questa, vestita di bianco virginale e con cofana fiorata Björk-style, che imbraccia un cacchio di pseudo-chitarra dall’aria medievale (aveva ragione Tommy: è l'autoharp). Grande interpretazione, intendiamoci, ottimo gruppo capitanato dall’omonimo Mick Harvey (e con lui la reunion virtuale dei Bad Seeds storici è completa, dopo Nick  giovedì e Blixa poco prima), e quando partono “C’mon Billy”, “Angeline”, “Meet Ze Monsta” e “The Sky Lit Up” si respira l’aria dei tempi che fu. PJ è un'Artista con la A maiuscola. Ma…
Purtroppo mi è toccato perdermi Dean Wareham, che a dire di molti è stato protagonista uno dei migliori act del festival. L’ubiquità ancora non è di questa terra. Sotto quindi con quello che prevedevo sarebbe stato un finale degno di cotanti tre giorni: il concerto della Blues Explosion. Che dire? La solita ora e un quarto che vale per tre, un remix live di canzoni e frammenti di canzoni fuse tra loro a un ritmo impressionante, tra urla belluine, mossette da Elvis in salsa punk e sudore a fiumi (that’s the sweat of the Blues Explosion!). Jon Spencer, Russel Simins e Judah Bauer dal vivo restano anche a distanza di anni un’esperienza straordinaria, ed è stata una soddisfazione personale vedere lo stupore ammirato dell’inizialmente scettico Pinux (che non essendo ubiquo nemmeno lui ha dovuto scegliere tra JSBX e Mogwai, e ha scelto bene). E stavolta si è unito al trio anche Money Mark, già che c’era. Per dire il livello.

Il tempo di stravaccarsi su una sedia per un pezzo di pizza, di intravedere 30 secondi di Animal Collective (bleah), e si può dichiarare chiusa questa edizione del Primavera. Si, perché ci sarebbero stati ancora i Mercury Rev al Poble Espanyol domenica, ma il fisico proprio non ce l'ha fatta, per quest’anno ya está.

Ho letto il lunedì sul giornale che quest’anno sono passate dal Fòrum 120.000 persone distribuite nei tre giorni, record assoluto di presenze per un Primavera Sound che è ormai il festival per eccellenza del panorama indie rock europeo. Se l’anno prossimo riusciranno a farci comprare anche delle birre senza troppi casini, sarà davvero il massimo. Lunga vita al Primavera Sound (e alle nostre schiene doloranti).





4 commenti:

  1. c'è chi passa i sabati sera a rincorrere una cosa bionda alta uno sputo che dice "cacca!!" (solo a cose fatte..) e chi si spacca il culo ai concerti...
    mix di invidia (per la tigna) e pena (per il 90% dei gruppi, ma EN e GRINDERMAN mmmmmmmmhhhh...)
    sarà per la prossima vita, intanto complimenti..

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  2. mi hai fatto sognare! (segnatamente: per Jaaarvis e John Cale in kilt)
    nel mio piccolo, mo' andrò a prendere i biglietti per Lou Reed.

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  3. sai che saro' a Milano anch'io l'8 luglio? Che biglietti prenderete per Lou all'Arena? Quasi quasi...

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  4. mi sa i più economici (ma c'è ancora la vaga tentazione di partire invece per Pordenone e vedere i PIL: sono la stessa sera!)

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